martedì 9 settembre 2008

Centenario di Cesare Pavese


"Ho imparato a scrivere, non a vivere". Queste parole descrivono bene la breve vita di Cesare Pavese, nato il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo, nel cuore delle Langhe cuneesi. Scrivere per lui era l’unico modo di essere felice, di sfuggire ai tormenti della vita: "Quando scrivo sono normale, equilibrato, sereno".

La vita invece gli sembrava non potesse essere felice: il disagio esistenziale e amori infelici lo portarono al suicidio il 27 agosto 1950, all’albergo Roma di Torino. Mise in pratica quel pensiero che già trapelava nelle prime pagine del suo diario “Il mestiere di vivere”, risalenti al 1936. Quell’idea è un sogno tragico, un’allucinazione che non abbandona mai Pavese, fino a diventare l’unico gesto possibile a salvarlo dall’insincerità dell’arte e della vita.

 

VERRÀ LA MORTE E AVRÀ I TUOI OCCHI


Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Cosí li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

22 marzo '50



Questa poesia, scritta cinque mesi prima del suicidio, esprime bene il disagio di Pavese. Eppure, lo scrittore era sicuro, forte della continua ricerca stilistica, dell’adesione costante ai temi prediletti, prima prefissati e poi egregiamente svolti, quasi con ossessività: il mito e la scoperta del selvaggio, l’infanzia, il ritorno al paese, il contrasto tra la città e la campagna, l’incomunicabilità tra esseri umani, la superiorità psicologica della donna sull’uomo, il confino politico. Pavese considerava l’attività di scrittore simile a quella di qualsiasi artigiano o professionista: si impara, ci si impegna e si riesce provando e riprovando, insistendo.

Leggendo il suo diario postumo, si può intuire cosa abbia spinto Pavese a bere sedici bustine di sonniferi: il 1949 e il 1950 sono una continua serie di riflessioni sulla fine della sperimentazione letteraria, tanto che il 18 agosto 1950, nove giorni prima del gesto finale, verga poche amare parole: “Tutto fa schifo... Non scriverò più”. L’impossibilità di una nuova letteratura e la disperazione per l’amore perduto di Constance Downing sono la chiave per capire: quello che aveva inseguito per tutta la vita, lo scrivere e l’amore, erano venuti meno e tutto gli doveva sembrare inevitabilmente vuoto. Nelle pagine del diario, anni prima, possiamo trovare la sua motivazione: “Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, infermità, nulla“.

Oggi celebriamo il centenario della sua nascita. Un grande scrittore, un poeta, un uomo infelice. Il miglior ritratto di Pavese che abbia mai letto è stato scritto dal suo amico Italo Calvino, a proposito del “Mestiere di vivere”: “La figura di Pavese trae luce e forza dalle sue stesse contraddizioni, dall’impotenza e infelicità di fronte al tramonto di tutti i valori: si ha sul serio la sensazione che lì vi sia riposta e scritta una storia che non appartiene solo allo scrittore, ma alla collettività, a tutti quelli che sono infelici”.


Cesare Pavese (Foto: Pubblico Dominio)

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LA FRASE DEL GIORNO
Si resiste a star soli finché qualcuno soffre di non averci con sé, mentre la vera solitudine è una cella intollerabile.
CESARE PAVESE, Il carcere




Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, 9 settembre 1908 – Torino, 27 agosto 1950), scrittore, poeta, traduttore, saggista e critico letterario italiano. Nato poeta con Lavorare stanca, si è poi dedicato alla narrativa scrivendo romanzi famosissimi: Paesi tuoi, La luna e i falò, La casa in collina. I suoi temi principali sono il mito e la terra.


4 commenti:

Luciana Bianchi Cavalleri ha detto...

Terribile e tangibile la desolazione esistenziale in questi suoi notissimi versi. Travaglio interiore senza uscita, assillo sconfinato ed inarginabile.
Un vacuo e profondo buio che, pur se non ci appartiene, viviamo con l'intensità di chi lo ha scritto.
Si avverte una ghiacciata lama di ferro sfiorare il cuore.
E si desidera fortemente uscirne: essere abbracciati da un caldo raggio di sole, osservare l'azzurro del cielo - e l'Oltre che li contiene.
Un respiro nel buio... poi, riemergendo dall'oscurità, un nuovo respiro nel sole, nel giorno e nella vita che riserva comunque continue sorprese. Da viversi. Confidando sempre che, al buio della notte più oscura, segue sempre una nuova aurora.

DR ha detto...

Dici giusto, leggere Pavese è un immmergersi nelle profondità di un animo turbato - parlo del diario e delle poesie più tarde. La disperazione è palpabile, tangibile, suscita un'empatia per quel soffrire vano. E sì, è un travaglio senza via d'uscita, un corrodersi sempre più, come una corda che si attorciglia sempre più e si aggroviglia senza più poterla districare. Non sono serviti gli amici, non c'è riuscito l'amore, anzi... Forse sarebbe servita una vera fede.

Alberto ha detto...

Ho sempre nutrito un certo interesse nei confronti del lavoro di Pavese, dalle prime di Lavore stanca sino a le ultime raccolte edite in modo controverso e che hanno subito il giudizio infelice della critica. Ho giusto qui sotto mano i poeti italiani del Novecento; lo spazio che Mengaldo riserva a Pavese è misero, ed il commento che esprime nei riguardi del piemonetese - davvero severo. A volte mi ritrovo a pensare che molti intellettuali provino un'antipatia quasi 'geografica' che non fondata su altre solide motivazioni. Per antipatia geografica intendo che Pavese è un poeta piuttosto 'regionale' ed esprime nei suoi versi un mondo che è per certi versi solo suo. Chi non ha la duttilità per entrarvici, non può che entrare in 'dissonanza cognitiva'... In oltre ponendosi come anti-ermetico, tendando di riformare in un modo altro la poesia italiana Novecentesca, perché se Ungaretti è un poeta in tutto francese, non si può negare a Pavese la vocazione occidua all'oltremare.

DR ha detto...

Concordo con questa tua disamina. Certa critica vive un complesso di superiorità ed incensa poeti che non lo meriterebbero, forse per simpatia ideologica o solo per consonanza geografica, quasi campanilistica. Io invece ho sempre apprezzato, da lombardo, questa sua piemontesità, questo suo coniugare mito e campagna, città ed esperienze. "Lavorare stanca" è uno dei libri più consunti che possiedo: ne rivango i versi e come una terra sanno darmi ogni volta nuovi frutti.